Internet e applicazioni contro il Coronavirus, che fine hanno fatto i diritti digitali?


Di Alessia Sposini

Le nostre democrazie non saranno più le stesse dopo il passaggio di COVID-19. Le decisioni prese nelle ultime settimane dai nostri governi contribuiranno a modellare il mondo per gli anni a venire. L’azione rapida, resa necessaria dallo stato di emergenza dettato dalla pandemia, rischia di perdere di vista le conseguenze sul lungo periodo delle misure introdotte.

Le misure

Nelle ultime settimane Top10VPN, un gruppo che promuove i diritti digitali, ha elaborato un nuovo indice open source per documentare e monitorare le nuove misure restrittive dei diritti digitali che i governi di 28 paesi stanno attuando. Il progetto è volto non solo ad identificare la data d’inizio dei provvedimenti, ma anche quando – al termine della pandemia – tali provvedimenti verranno meno, se verranno meno. L’analisi evidenzia una suddivisione in quattro categorie delle misure intraprese: misure di tracciamento digitale, misure avanzate di sorveglianza fisica, censura relativa a COVID-19, accesso limitato alla rete internet – nonostante lo scoppio della pandemia. 

Misure di tracciamento digitale, in atto in 20 paesi.

Si tratta di applicazioni che sfruttano la scia GPS degli smartphone in maniera aggregata, ma anche di app che aiutano a tracciare gli spostamenti delle singole persone affette dal virus. 

Stando al report del Wall Street Journal del 28 marzo, gli Stati Uniti stanno utilizzando i dati sulla posizione di milioni di cellulari per monitorare come gli spostamenti dei cittadini americani influiscono sul diffondersi della malattia. Ne segue che, almeno 500 milioni dei 2 trilioni di dollari di stimoli all’economia americana firmati dal Presidente Trump, saranno utilizzati per implementare le misure di digital tracking e modernizzare l’infrastruttura di analisi, il tutto entro i prossimi 30 giorni. Si ritiene che i dati non sono estratti dagli operatori mobili, ma dall’industria di mobile advertising.

In risposta all’emergenza da Coronavirus, Google ha sviluppato un progetto fruibile online (non open source per motivi di protezione dei dati personali) “COVID-19 Community Mobility Reports”. Si tratta di un’iniziativa di monitoraggio degli spostamenti dei cittadini di 131 paesi, che utilizza i dati aggregati e anonimi di Google Maps. Come segnalato dalla descrizione stessa del progetto: “I rapporti tracciano nel tempo le tendenze dei movimenti per area geografica, attraverso diverse categorie di luoghi come negozi e attività ricreative, generi alimentari e farmacie, parchi, stazioni di transito, luoghi di lavoro e residenziali.”

Tecnologie avanzate di sorveglianza fisica, in atto in 7 paesi.

Trattasi dell’utilizzo di software di riconoscimento facciale, sensori termici e droni atti a monitorare gli spostamenti dei cittadini e a rafforzare le misure di coprifuoco, laddove introdotte. Al 30 marzo, il canale australiano 9 News riporta che la polizia dell’Australia occidentale sta facendo utilizzo di droni – allestiti di lampeggianti e sirene – per l’implemento delle misure di lockdown, al fine di pattugliare spiagge, parchi e grandi aree. 

Misure di censura dovute al coronavirus, in atto in 11 paesi.

La crescita di campagne di misinformazione e disinformazione – tristemente caratteristiche del ventunesimo secolo – ha portato alla giustificazione da parte di alcuni governi circa l’introduzione di pratiche censorie sui flussi di informazioni riguardanti il virus. Il primo paese ad applicare tali misure è stato la Cina il 31 dicembre 2019, allo scoppio dell’epidemia. L’ultima segnalazione, riportata il 25 marzo da Voice of America, riguarda la censura, la molestia e la detenzione di giornalisti e utenti dei social media da parte delle forze dell’ordine iraniane, al fine di contenere i flussi di informazione “indipendente” in tema di Coronavirus. Lo stesso giorno, Human Rights Watchha messo in luce l’utilizzo di leggi anti-fake news, da parte del governo thailandese, al fine di perseguire coloro i quali manifestino dissenso nei confronti della risposta del governo alla pandemia. Sulla stessa scia, in Russia, l’ente regolatore dei media Roskomnadzor, sta ordinando la rimozione di articoli che riportino notizie “non ufficiali” circa il virus da siti Web e social media.

Limitazione dell’accesso alla rete internet, in atto in 4 paesi.

Nonostante l’emergenza sanitaria in atto richieda un pieno accesso a informazioni sanitarie critiche (prima tra tutta l’educazione sanitaria come metodologia di prevenzione del virus mediante norme mediche standardizzate e indicate dall’OMS), alcuni governi mantengono una stretta repressiva sull’accesso ad Internet. Tra i governi che stanno adottando lo shutdown di Internet a causa del Coronavirus, sono segnalati: Etiopia, India, Bangladesh e Myanmar.

Stando alla definizione di Access Now, per Internet Shutdown o kill switches s’intende l’interruzione intenzionale del servizio Internet o telefonico – generalmente da parte di un governo – in un’area geografica, o per una popolazione specifica, al fine di controllare il flusso di informazioni. Non si tratta di una novità, né di una misura introdotta esclusivamente per contenere – se così ai può dire – il virus. Così come evidenziato dal recente report KeepItOn di AccessNow, nel 2019 33 paesi hanno intenzionalmente interrotto l’accesso ad Internet, mentre nel 2018 i paesi ammontavano a 25.

Il dibattito 

Il dibattito sulla sorveglianza di massa e sull’utilizzo improprio dei dati personali, negli anni, è passato per snodi cruciali come il caso Snowden, l’ex agente dell’National Security Agency che ha esposto i programmi di sorveglianza di massa perpetrati dall’intelligence americana ai danni dei cittadini di tutto il mondo. Piuttosto che per lo scandalo di Cambridge Analytica, dove i dati milioni di profili Facebook sarebbero stati raccolti, inizialmente sotto l’effige delle “ragioni di ricerca”, dal dott. Aleksandr Kogan. Per poi, successivamente, passare sotto il controllo dell’azienda Cambridge Analytica che li ha utilizzati per influenzare il voto di migliaia di cittadini americani. Fin qui, nulla di nuovo.

Secondo la Commissione Europea “i dati personali sono tutte le informazioni relative a un individuo vivente identificato o identificabile. Diverse informazioni, che raccolte insieme possono portare all’identificazione di una determinata persona, costituiscono anche dati personali”.  La promulgazione, il 25 maggio 2018, del Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati (GDPR) sembrava aver sancito un punto di svolta nel dibattito Europeo su data protection e privacy. Tuttavia, come dimostrano le misure restrittive dei diritti digitali adottate in molti paesi a causa del Covid-19, il dibattito sulla protezione dei dati personali è tutt’altro che esaurito.

La scelta

Dall’articolo di Yuval Noah Harari sul Financial Times: “Chiedere alle persone di scegliere tra privacy e salute è, in effetti, la vera radice del problema. Perché questa è una scelta falsa. Possiamo e dobbiamo godere sia della privacy che della salute”. La domanda sorge spontanea, come?

La scelta è tra la sorveglianza massiva e l’empowerment, la responsabilizzazione dei cittadini. Creare una cittadinanza consapevole, informata, vuole dire strutturare un sistema informativo efficiente e “a prova di fake news”. Le misure digitali di gestione della pandemia sono, indubbiamente, la via più breve – non necessariamente quella meno dispendiosa – da parte dei Governi per ottenere risultati in “numeri” e spendibili davanti alla comunità internazionale. A riscuotere successo rassicurando gli operatori economici sono le misure forti, sintomo di governi altrettanto decisi e stabili. La verità è che non esistono governi, paesi o comunità preparati ad una pandemia. Sicuramente in queste situazioni “straordinarie” la democrazia è un’arma a doppio taglio, nel senso che, ad esempio, realizzare un lockdown totale della popolazione all’inizio dell’allora epidemia sarebbe stato impossibile a causa della mancanza di percezione del rischio da parte dei cittadini.

Per giustificare delle misure di limitazione della libertà eccezionali, sono servite settimane di campagne informative e un crescente numero di casi che hanno spinto l’opinione pubblica a credere nell’effettiva necessità di tali azioni. Nei decenni precedenti, la nascita del popolo nuovo, della massa come nuova identità sociale, ha portato alla creazione di uno spazio altrettanto nuovo. Nel vuoto che intercorre tra potere e comunicazione, nella società moderna, va a collocarsi lo spazio nuovo che è quello dell’opinione pubblica. La creazione di questa sorta di coscienza collettiva capace di influenzare il potere politico, così come ne viene a sua volta influenzata, è possibile attraverso l’informazione, o meglio, mediante l’indipendenza dell’informazione.

Il punto principale è che, avendo già dovuto rinunciare per questioni di sanità e sicurezza, alla libertà di circolazione, potrebbe sembrare necessario rinunciare altresì ai, sicuramente più recenti e meno consolidati, diritti digitali. Si tratta di una falsa necessità, di una “falsa scelta”, che lascerà dietro sé delle democrazie ineluttabilmente cambiate.

Articolo originariamente pubblicato su geopolitica.info